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ONDA AFRICANA DAL MOZAMBICO

n. 4 - febbraio 2011

Ho visto le onde del Mediterraneo in Italia, quelle dell’Oceano Atlantico in Portogallo, ma è nell’Oceano Indiano del Mozambico che ho fatto il bagno nel mese di febbraio 2011.

Mia sorella Suor Dalmazia aveva sognato da tempo di tornare in Africa nel “suo” Mozambico, dopo dieci anni in Italia come giornalista e animatrice missionaria della Consolata.

Ha qualche anno più di me (non si dicono gli anni delle signore!) e tanta voglia di fare qualcosa, sempre per il Regno di Dio, in quel Mozambico che l’aveva vista arrivare con la nave nel dicembre del 1964. Alla sua prima partenza mi ero fermato a guardarla sul molo di Genova, ora i mezzi moderni mi permettono un volo di andata e ritorno in quindici giorni.

  

effetto dei... lustri

 

paesaggio africano

suor Dalmazia, suor Nicoletta, don Antonio

giovani donne a Massinga,

 

le pareti della cappella lasciano filtrare ...la luce

 

nella segreteria  dell'Università Cattolica di Maputo

sull'oceano

l'artista-volontario Mavale con don Antonio

 

Il sole, il mare e il verde

Parto dalla Malpensa avvolta nella nebbia e arrivo a Maputo, capitale del Mozambico, in una chiara mattina inondata di sole. Un piccolo e allegro aeroporto nuovo mi accoglie con le Suore già pronte ad abbracciare calorosissimamente la sorella. Così si ripeterà per centinaia di volte, mentre io resto tranquillamente in secondo piano con gli amici don Ruggero Camagni e Silvano Montecchio.

E’ obbligatorio mettere subito una camicia leggera e lasciare al sole l’incarico di scaldarci le ossa e farci positivamente sudare. Con il sole ci colpisce subito la chiarità dell’aria, i colori nitidi  e l’azzurro intenso del cielo con qualche nuvolone sparso qua e là, perché siamo nella stagione delle piogge.

Non siamo lì come turisti, però non ci dispiace dare uno sguardo alla bella capitale toccando i suoi punti principali: la fortezza sul mare per respingere i pirati, la Cattedrale con la sua ardita guglia bianca, gli ampi viali ricchi di traffico, il porto con tante navi, i mercatini ricchi di tutto  fino a colorati e artistici batik, e l’originale Chiesa di Sant’Antonio della Polana con l’ardita cupola conica che esplode in un  trionfo di colori  al momento del tramonto.

interno della Chiesa di S. Antonio - Polana-Maputo

Tutto è avvolto nel verde intenso dell’estate africana con le sue piogge che diminuiscono a poco a poco, dopo avere inzuppato di vita la terra, inondandola di ogni sfumatura di colori.

Mozambico è mare per 2.000 chilometri, una ricchezza in tutti i sensi. Nel 1989 avevo gustato la sabbia bianca finissima nella baia di Pemba al Nord, questa volta ho passato ore bellissime vicino a Massinga guardando il gioco delle onde con la schiuma bianca, il riflesso del sole nelle nitidissime acque con un mare totalmente azzurro che rifletteva la bellezza del cielo chiazzato di piccole nubi bianche. Calde sono le sue acque ristoratrici.

tra nuvole ed oceano

Mi sono riempito gli occhi della lussureggiante natura, soprattutto percorrendo per centinaia di chilometri la costa ricchissima di palmeti di cocco. Tutto un alternarsi di colline mentre si correva su un asfalto quasi perfetto che di per se stesso era una prova che il Mozambico è un paese in pace con una grande voglia di crescere.

 

Continuamente il mio pensiero correva alla costa del Perù ricca di sabbia del deserto, che pure ha un suo fascino misterioso, mentre nasceva nel cuore la preghiera di lode a Dio, creatore di un mondo tanto bello e tanto ricco di svariate sfaccettature.

aeroporto di Maputo

Oceano Indiano

scorcio

occorre ancora prendere l'acqua alla fontana

La pace, finalmente 

Almeno dieci volte ho visitato il Mozambico dal 1971, sempre incontrando un paese dilaniato dalla guerra, da quella per l’Indipendenza dal Portogallo fino al 1975 alla più devastante guerra civile finita il 4 ottobre 1992, comprendendo anche una persecuzione religiosa. Nel viaggio del 1989 era stato un bambino con un fucile in mano a intimarmi l’alt, mettendomi addosso una grandissima paura. Adesso no, nessuno mai ci ha fermato, ci ha chiesto i documenti, ci ha spianato davanti  un kalashnikov o ci ha guardato con faccia sospettosa.

La pace apre le strade in tutti i sensi e permette di curare ferite profondissime, comprese quelle del cuore di quell’uomo che vive senza un orecchio strappatogli dal fratello che era schierato nell’altro esercito. Aveva avuto un’occasione d’oro per vendicarsi, ma aveva preferito seguire un rito antico di riconciliazione, offrendo al fratello colpevole un bicchiere d’acqua fresca!

Con la pace tutti si mettono a costruire anche case bellissime. Pure le capanne si rendono solide con il tetto di zinco che attira il calore, ma dà sicurezza.

Anche il parco delle macchine e dei camion presenta un discreto livello con invasione dal Giappone o dalla Corea. Mi hanno fatto notare che in città un autista su due è donna! Perché? La spiegazione datami è questa: quando una donna comincia a lavorare, mette da parte i soldi per comprare prima dei bei vestiti nuovi e subito dopo  una macchina tutta per lei. Tocca al marito pensare alla casa!

La pace ha avuto come frutto immediato la riapertura delle Chiese in tutto il paese e una vera libertà religiosa con un fiorire di mille iniziative, frutto della fantasia dello Spirito Santo.

asfalto e terra rossa

il tetto è in lamiera

   

nascono nuove chiese

Una suora “viva”

Gli anni passano, ma non per tutti.  C’è chi conserva una giovinezza spirituale invidiabile.

Suor  Teresa José l’avevo vista ventidue anni fa mentre era raccolta in intensissima preghiera in una minuscola cappellina nel Nord. Temeva il viaggio con la colonna militare, sempre nel mirino dei guerriglieri nelle imboscate.  La storia la racconta sempre con un sorriso: “Sì, sono proprio io che sono rimasta due ore sotto un camion, aggrappata all’asse di trasmissione pregando e strapregando mentre attorno si scatenava l’inferno con spari e bombe. Poi era sceso uno stranissimo silenzio, come se fossero morti tutti. Minuti interminabili rotti da un grido: “ Ma dov’è la Suora? Hanno ammazzato anche lei?” “ No, sono qui sotto, sono viva!”

E come se è viva e felice nel celebrare i cinquant’anni di vita religiosa in un correre instancabile per i bambini malnutriti cui da’ una miracolosa multi-mistura di farina e vitamine e per costruire il nuovo centro per gli ammalati, tipo day hospital.

 Si è inventata anche architetto pur di ottenere un finanziamento da un’organizzazione portoghese, preparando i disegni e i preventivi. Ora  fa’ da  capo cantiere sempre attenta all’impasto del calcestruzzo, alle tubature dello scarico, alle tende, senza dimenticarsi di mettere un tocco di verde e fiori nel cortile centrale.

L’ultimo pericolo scampato è stato quello di un bel serpente velenoso che per mesi si era nascosto nel suo piccolo laboratorio, dietro una bombola di gas. Anch’io ero stato lì, il giorno prima!

suor Nicoletta, Silvano, don Ruggero 

 

la falegnameria

suor Dalmazia con suor Nicoletta nel laboratorio

Celebrare in portoghese

Poche cose sono necessarie davvero per celebrare una Messa, tanto ogni sagrestia ha la sua liturgia. In che lingua? Dopo il latino, l’italiano, l’inglese, l’africano, lo spagnolo eccomi al portoghese. Dio ha capito tutto  e spero che  anche i fedeli abbiano inteso sufficientemente la mia cadenza italiana e qualche accento sbagliato.

Massinga, chiesa principale, domenica 6 febbraio, ore 9, circa 300 persone.

Si entra solennemente in processione con il canto del coro e l’accompagnamento danzante di otto donne che subito mi fanno tornare ai dodici anni di Zambia che sembravano come assopiti nel cuore.  Che ha di speciale la Messa in Africa? Il coinvolgimento della gente, la tranquillità dei bambini, la voce chiara e solenne dei lettori, l’offertorio che muove ogni fedele verso l’altare, i trilli spontanei di gioia dopo la Comunione, la pazienza con cui ascoltano gli avvisi, gli occhi dei bambini piccoli che spuntano da dietro le spalle delle mamme, la fede che neanche una dura persecuzione ha spento, la presenza di giovani studenti e signorine eleganti, le melodie di  musiche scandite dai tamburi, il canto in diversi dialetti, il silenzio della consacrazione scandito da tre battiti delle mani, le parole sempre super speciali della consacrazione?

Tutto questo e molto di più con Gesù vivo che ognuno sente come suo, solo suo, come San Tommaso che diceva: "Signore mio e Dio mio!"

Durata  della Messa: due ore e mezzo. Nessun sbadiglio.

 

Maputo, una cappella nell’entroterra, domenica 13 febbraio ore 9, circa 150 persone.

Picchia il sole sul tetto di lamiere di zinco di questa piccola comunità che vede il sacerdote di tanto in tanto, ma sempre ogni domenica si raduna per la preghiera. Oggi non ci sono danze, ma questo non cambia lo spirito gioioso e sereno della celebrazione che ti fa sentire subito in famiglia. Predico in italiano parlando della fede in Perù, nella bellezza della chiesa cattolica nel mondo, mentre l'amico padre Tavares traduce, come 40 anni fa a Mecanhelas per il matrimonio della sorella Rosy. Sento che la gente ascolta con piacere, senza bisogno di una traduzione nella lingua locale. Mi distraggono le treccine delle bambine e la palma di cocco quasi appiccicata alla porta aperta mentre mi affascina il canto di una signora al salmo responsoriale e la serietà di una ragazzina che legge con chiarezza il Vangelo nella lingua ronga.

Durata della Messa: due ore.

         

Il dopo Messa vede riunirsi il gruppo degli animatori liturgici e i catechisti con il parroco sotto un frondoso albero di mango, mentre un altro albero  copre con la sua ombra quasi quaranta ragazzi dell’Infanzia Missionaria, impegnati nell’eleggere il loro giovane presidente; la democrazia avanza!

Momenti d’intimità spirituale sono state le dodici Messe celebrate nella cappellina delle Suore. Una volta ognuno ha detto il Padre Nostro nella sua lingua con la comunità internazionale: tre suore brasiliane, una portoghese, una del Kenya, una del Mozambico, due italiane. Uniti nella fede, senza frontiere, è proprio bello.

Grazie, Gesù

crocifisso intarsiato nell'ebano

concelebrano don Ruggero, don Antonio, padre Tavares

 

due responsabili della liturgia

 

riunione dei catechisti

 

Una grande croce bianca con 23 nomi

L’emozione più forte l’ho vissuta una calda mattina seduto davanti a una grande croce per ascoltare il racconto di una Suora congolese. “C’ero anch’io quella notte del marzo 1992 quando un gruppo di soldati tentò in tutti i modi di sfondare la porta della nostra casa. Invocai con tutta la mia fede Gesù presente nel Tabernacolo della nostra Cappella. Se ne andarono inferociti e si scatenarono contro otto famiglie di catechisti del nostro centro di formazione. Incolonnati nella notte, furono uccisi uno per uno con le loro famiglie. Erano 23 tra bambini e adulti. Leggete i loro nomi qui su questa croce bianca e guardate là le tombe dove li abbiamo sepolti, raccogliendo i loro corpi straziati tra infinite lacrime. Avevano risparmiato solo una bambina di sette anni perché venisse a raccontarci, tra balbettii e singhiozzi, il massacro”.

Il sole, il verde, il silenzio della natura attorno a noi non ci hanno dato neanche la forza di pregare. Una sola speranza: nello stesso Centro di formazione sono tornate altre quindici famiglie di catechisti da ogni angolo del paese, raccogliendo da terra il testimonio insanguinato per trasformarlo in una lampada accesa per continuare il cammino.

Questo è avvenuto a Guiua, a non molti chilometri dalla stupenda baia di Inhambane.

La cordialità del giovane Padre Diamantino, responsabile del centro, ha cercato di attutire l’impatto, preparandoci un buon pranzo con pesce dell’Oceano; anche in questo si rivela la forza dei missionari, veri seminatori di pace e speranza.

 

le tombe dei martiri di Guiua

 

tra le vittime uomini donne bambini

Arcivescovi amici

Può sembrare quasi irriverente chiamare “amico” un Cardinale o un Arcivescovo, da cui normalmente ci si tiene a riverente distanza.

“Chi annuncio?” “Dica a Sua Eminenza che c’è qui Suor Dalmazia e suo fratello don Antonio, lui ci conosce.”  Sono emozionato quando vedo scendere dalle scale, in tunica bianca con bordi rossi, il Cardinale Alessandro Dos Santos, anni 90, Arcivescovo emerito di Maputo. Sì, è sempre lui l’uomo dei record: primo sacerdote, primo Vescovo e primo Cardinale della storia del Mozambico. Una gioia semplice e vera sedersi sullo stesso divano e riallacciare come d’incanto conversazioni interrotte da anni. Memoria freschissima, un parlare lento e dolce sempre con un sorriso sul suo volto scuro incorniciato dai bianchi capelli. Ricordiamo anche il momento – per me solo televisivo – quando il vento gli stava facendo volare via il berretto rosso nella mattina dei funerali di Giovanni Paolo II, in piazza San Pietro nel 2004.  Una piacevole ora passata con lui che ha accettato di uscire a bere una bibita fresca  al chiosco in mezzo a un parchetto ricco di fiori e musica dolce. Quante cose desidera fare insieme a Suor Dalmazia, in primo luogo per l’Università di San Tommaso, ultima sua creatura generata a ottantacinque anni d’età, grazie anche ai primi mille euro della Parrocchia dell’Altopiano di Seveso!

Resta fermo sul cancello a salutarci fino a quando svoltiamo l’angolo.

conversazione

Compagno di studi di Suor Dalmazia all’Università Gregoriana di Roma è invece l’attuale Arcivescovo della città, dom Francisco Chimoyo. La segretaria non voleva fissare nessun appuntamento, dicendo che non c’era ed era occupatissimo per giorni. “Faccia semplicemente sapere che Suor Dalmazia è tornata, per restarci!”

Non so se l’amico Arcivescovo ha cambiato il suo  programma per riceverci il giorno dopo, con totale disponibilità e mille attenzioni. Anche lui aveva passato brutti momenti nella guerra civile, ma tutto sembrava nascosto in angolino del suo cuore, tornando a risvegliarsi quando notò  il mio sguardo curioso verso la statua di San Giuseppe, collocata proprio alle sue spalle. “E’ vero  anche San Giuseppe e il Bambino portano cicatrici di sfregio, ma già ho parlato con l’artista Chilavi per ridare alle statue tutto lo splendore di prima, ora ci sono pace e libertà religiosa”.

Con semplicità ci ha preparato un caffè da buon padre cappuccino, arrangiando chicchere spaiate e lottando contro la moka che faceva i capricci. Le foto scattate nel giardino hanno rivelato fino all’ultimo la sua cortesia.

 

 

don Antonio il card. dos Santos, suor Dalmazia

don Ruggero, suor Dalmazia, l'arcivescovo dom Chimoyo, don Antonio

Stefano, responsabile di Sole onlus, dom Francisco Chimoyo

Sorrisi di bambini

La pioggia poteva aspettare un po’ senza interrompere bruscamente l’incontro con i bambini di una scuola elementare nella lussureggiante savana. Ci stavamo movendo un po´ tristi nella vecchia missione di Massinga, chiusa per ordini governativi negli anni ottanta. Tutto mostrava l’abbandono, tranne la scuola piena di bambini sbucati dai villaggi d’intorno. Loro hanno innocenza, freschezza e curiosità vedendo quattro bianchi camminare nella savana. Non hanno cartelle firmate e più di uno nemmeno le scarpe, mentre si avvicinano con occhietti furbi e belli. Non ricordo in che lingua ho parlato, forse ho mischiato italiano, spagnolo e portoghese, ma loro capivano, rispondevano, facevano domande anche sul Perù, paese lontanissimo e sconosciuto. Si parlava anche a gesti, guardando incuriositi la grande macchina fotografica di Silvano con tutti i suoi obiettivi; stavano arrivando anche altri bambini e bambine felici quando un improvviso e violento temporale ci ha messo tutti in fuga. L’autista temeva che restassimo impantanati nel fango rosso sdrucciolevolissimo della strada sterrata.

a scuola con il ramo di palma

Di bambini ne ho incontrati altri qua e là, davanti all’ambulatorio delle Suore, nella città, durante le sante Messe e soprattutto in cammino attorno alle scuole, all’alba, a mezzogiorno, al pomeriggio e anche al l tramonto sempre  con passo svelto e leggero.

Mi ha fatto tenerezza vedere un bambino di circa dieci anni trascinare sull’asfalto un grosso ramo  secco di palma di  cocco in direzione della scuola lontana almeno un chilometro. Più avanti camminava  una ragazzina che però il ramo lo portava in testa, come fanno le donne.

 Si trattava di un compito speciale dato dal maestro per migliorare la scuola con una nuova capanna - laboratorio: “Domani, ognuno venga  con ramo di palma!”

Quando andranno a scuola in macchina, accompagnati dalla mamma?

Massinga, la missione

 

missionari e bambini, un incontro speciale

 

sorrisi che restano nel cuore

 

la pioggia trasforma la strada in una pista scivolosa

La palma di cocco e un pallone sgonfiato

 

La vera scoperta per me è stato questo albero: la palma di cocco.

In un caldissimo pomeriggio abbiamo visitato una Cappella circondata da centinaia di palme dall’altissimo fusto. Un bambino era salito come uno scoiattolo fino alla cima dell’albero, aiutandosi un poco con le tacche che formavano come una scala. Piazzato lassù, si allungava qua e là staccando un cocco dopo l’altro, facendolo cadere al suolo con un rumoroso tonfo. Pronto era il nostro autista a raccoglierli per metterli nella macchina, non senza approfittare per un assaggio sul posto della qualità del frutto. Con un grosso coltellaccio e con bravura spaccò il duro involucro offrendone un cocco a ciascuno, sei in tutto. A dire la verità, io ero un poco restio ma mi lasciai convincere assaporando sempre più con gusto il latte di cocco, sorso dopo sorso. La sua parte bianca fu poi servita come frutta a cena, aspettando l’occasione di incontrare anche il gelato al sapore di cocco. Adesso lo saprei apprezzare meglio.

I palmeti di cocco si espandono per centinaia di chilometri lungo la costa dell’Oceano Indiano, fonte di vita in tutti i sensi per la gente.

“Quanti metri di terreno hai comprato per il tuo centro per le ragazze?” chiesi un giorno a  Suor Maria. Risposta: “ Dieci piante di cocco, solo loro l’unità di misura!” Tutto è utilizzato dal tronco come legname alle foglie come verdura o per medicinali quando sono verdi. Seccando servono per costruire le pareti della capanna, mentre dal frutto estraggono olio vegetale e industriale, oltre a essenze varie. La parte bianca si può servire come antipasto con fette di prosciutto crudo, ed è buono anche per le torte. L’involucro durissimo è utilizzato come legna da ardere.

Sotto le piante si nascondono al fresco le capanne e se c’è una piccola radura di sabbia può nascere anche un campo di calcio.

“Fermati, voglio vedere la partita di calcio!” Ho quasi gridato all’autista, ma non volevo perdermi la più interessante partita di calcio della mia vita, proprio nella piccolissima radura  di sabbia tra altissime palme di cocco. Bambini sui dieci anni stavano lottando con tutte le forze uno contro l’altro per calciare a rete (due paletti quasi invisibili piantati nella sabbia) un pallone buco che si gonfiava e sgonfiava a ogni contatto. Sono sceso subito in campo con loro che quasi mi passavano tra le gambe. Erano a piedi nudi, alcuni a dorso nudo, altri con magliette di tutti i colori (non certo del Milan o del Barcellona), ma velocissimi nel tentare di scartarsi, combattendo anche contro la sabbia che frenava i movimenti. Non mancava il pubblico, con alcune mamme e un bambino piccolo con una bicicletta dalla ruota bucata.

Le palme di cocco avvolgevano tutti, piccoli e grandi, in un caldo abbraccio.

 

una radura, un pallone e si gioca a calcio

ho fatto gol!

che meraviglia e che voglia di fare un tiro

se volete un cocco

 salite quassù

 

poi occorre preparalo

 

tagliarlo

 

infine lo si beve e si mangia: è fresco e buono

Arrivederci fra quarant’anni

 Sono tante altre le impressioni che sono fissate nella mia memoria, come tante le persone che devo salutare e ringraziare. A Suor Nicoletta, del Kenya, ora superiore regionale dico tutto il mio grazie per il suo sorriso e le attenzioni. Nelle sue mani ho lasciato la mia “sorellina” suor Dalmazia, felice di essere tornata nella “sua” terra.

Ho scelto una foto per concludere: quella con il portoghese padre Tavares, con questa scritta sul retro. “Qui ci siamo incontrati dopo 40 anni. L’appuntamento è fra altri 40 anni. Dove?  Lasciamo a Dio scegliere il posto!”

Don Antonio Colombo

 Mozambico, 18 febbraio 2011

bimbi africani

P.S. La bottiglia con l’articolo incorporato ci ha messo tempo per arrivare al porto.

 

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