| Pace e guerra |  | AFRICA/MOZAMBICO - LA GUERRA, OGGI, COME SEMPRE, UCCIDE, FERISCE, METTE
        IN FUGA SPECIALMENTE TANTE E TANTE DONNE! Intervista
        rilasciata all'Agenzia FIDES a Maputo (Mozambico) il 14/2/2003  "Su
        36 anni della mia vita missionaria in Mozambico, 26 ne ho trascorsi in
        situazione di guerra: 10 furono per ottenere l'Indipendenza dal governo
        coloniale; 16 per ottenere la liberazione dalla dittatura marxista che,
        in seguito aveva preso il potere.Io stessa, essendo donna, ho vissuto da donna tutti questo lunghissimo
        tempo in cui la violenza non si attenuava, ma cresceva con il passare
        degli anni.
 Il primo impatto donna-guerra, l'ho avuto sul piroscafo che da Lisbona,
        con un viaggio di 30 giorni, mi ha portato al porto mozambicano di
        Nacala, il più vicino al Niassa, la provincia dove ero destinata.
 Sulla nave viaggiavano con me donne portoghesi che raggiungevano sul
        fronte il figlio, il fratello, il marito, il fidanzato... Mi dicevano
        che dopo aver tanto pianto e radunato i loro averi avevano deciso di
        affrontare il rischio di una vita "Oltre mare", per non
        perdere tutto: uomo, soldi, giovinezza "e - aggiungevano quelle che
        avevano bambini con sé - perché i figli almeno conoscano il
        padre!".
 (Qualcuna, sbarcò e non trovò già più colui che cercava!).
 Quando arrivai alla cittadina di Cuamba, ebbi l'impressione di trovarmi
        in una immensa camera ardente in attesa dell'arrivo del feretro, anzi
        dei feretri. Infatti era giunta la notizia che vi era stata uno scontro
        armato con perdite pesanti. Gli uomini che si trovavano ancora in città
        si organizzarono per recarsi sul posto e le donne rimasero in attesa:
        chi di loro, avrebbe dovuto vestirsi in gramaglie? E in certe culture,
        vestirsi in gramaglie per vedovanza é molto di più che cambiar colore
        del vestire, come giustamente lo sentiva Rossella, nel romanzo "Via
        con il vento".
 Il primo ferito che soccorsi fu un soldato mozambicano. Era una sera
        sull'imbrunire, la colonna militare era caduta in un'imboscata e ,
        quest'uomo che ricordo alto come un gigante, fu raccolto dai suoi
        compagni in stato di choc confusionale. Quando giunsi quattro uomini lo
        tenevano inchiodato sul lettino mentre lui si dibatteva e urlava, urlava
        una parola: "Mamma, Mamma..." Mi avvicinai e ordinai di
        lasciar libero il malato, mentre avvicinandomi sussurrai; "Sta
        tranquillo, sono qui", e le accarezzai la fronte! L'uomo aprì gli
        occhi, mi guardò e mormorò: "Amae..." che significa sia
        "madre" che "suora", e si calmò.
 Quando si parla di guerra, si parla sempre di: morti, feriti,
        rifugiati... Tutti termini al maschile. Non ho niente contro la
        grammatica e so benissimo che non sono termini che escludono la donna,
        ma deviano dalla verità, la guerra, oggi, come sempre, uccide, ferisce,
        mette in fuga specialmente tante e tante donne!
 Un ricordo che non mi riesce a dimenticare é la ragazza che era venuta
        a Mitucue a prendere il suo vestito da sposa e che nel raggiungere
        quella che avrebbe dovuto essere la "casa della sua felicità",
        ebbe le gambe troncate da una mina.
 Un capitolo a sé sono i profughi, o meglio le profughe con il seguito
        dei bambini, delle bambine, che le mamme vorrebbero veder non crescere,
        perché cresciuti, anche solo poco dopo l'infanzia, essi e esse
        correvano il rischio di essere strappate anche da quel lembo di terra
        divenuto la loro casa, una casa spesso senza mura, senza tetto a non
        essere qualche frasca. Strappati per diventare che cosa? Bambini e
        bambine soldato, bambini e bambine "trastullo" e le mamme le
        donne sapevano questo!
 Di queste donne, ne ho viste tornare dall'esilio nel 1992-1993, dopo il
        trattato di pace, a decine, a centinaia.
 Ricordo di aver incontrato un gruppo che camminava compatto, proveniente
        dal Malawi. Saranno stati un centinaio di persone, quasi tutte donne,
        parecchi bambini, qualche uomo non giovane. Camminavano da qualche
        giorno e stavano tornando in Mozambico dopo una decina d'anni di vita
        fuggitiva portando ognuno un fagotto in testa, una pentola legata al
        fianco.
 Ricordo di essermi fermata chiedendo dove erano diretti. Pronunciarono
        un nome. Obiettai che quel villaggio l'avevano già superato. Lo
        sapevano, ma quella terra era imbevuta di sangue e di violenza, non era
        fatta per vivere in pace. Insistetti dicendo che era stata sminata, che
        vi erano ancora il pozzo, i mangos, la loro terra fertile. Non
        risposero, continuarono a camminare.
 Li ritrovai qualche settimana dopo, accampati al limiti di una foresta,
        che a mano, con immensa fatica stavano disboscando per ricominciare a
        vivere. Eravamo vicini a Natale. Mi chiesero se potevo andare a pregare
        con loro. Quelle donne avevano già creato anche il luogo dove Gesù
        poteva nascere: un angolo di foresta disboscata a cerchio, con una
        croce nel centro e tronchi per sedersi tutt'intorno. Con queste famiglie,
        quasi tutte con capo famiglia al femminile, penso di aver vissuto uno
        dei natali più belli della mia vita missionaria".
 Suor Dalmazia
        Colombo | 
 |